1 dicembre 2014

La tradizione del matto-savio: poeti, lirici e trovatori




Mark Hedsel non ha fatto misteri sulla via da lui seguita, che era la Via del Matto: una via in parte estrinsecata nei disegni arcani dei ventidue atout dei tarocchi tradizionali, quelli di cui si serve la divinazione popolare. La via a cui Mark era stato iniziato conduce a una conoscenza talmente diversa da quella comune che quanti la perseguono rischiano continuamente di venire fraintesi. Basta un lapsus o un gesto inappropriato per passare davvero per matti.

La Via del Matto, come si vedrà chiaramente da quello che segue, ha un legame molto stretto con lo sviluppo interiore dell’ego. Alimentare l’ego è un’impresa pericolosa: fra i seguaci di questa via sono pochi quelli che di tanto in tanto non incespicano e cadono.

«Mark, tu hai detto che questo sviluppo della coscienza dell’ego era molto evidente fra gli artisti. L’ego ha forse emesso i suoi primi vagiti nella Firenze del XV secolo?»

Mark sorrise, come se si aspettasse la mia domanda.

«Diversi secoli prima, David. Vedi, poeti e musicisti percepiscono l’evoluzione e i cambiamenti spirituali della psiche umana con molto anticipo rispetto agli altri. I pittori e gli scultori, nonostante la loro tanta decantata capacità di visione, sono più terreni dei poeti e dei musicisti: i poeti hanno antenne speciali per queste cose. In un certo senso sono i “raccoglitori del vento”. Quando nell’aria c’è un cambiamento spirituale, i primi a fiutarlo sono in genere i poeti, che l’esprimono in liriche e canzoni. I poeti sono sognatori sensitivi. Tutti gli artisti – poeti, pittori, musicisti – sognano le loro immagini prima di inserirle nelle loro opere, ma il poeta sogna più profondamente.

«Dunque, i veri visionari sono i poeti. Sono loro a percepire gli sviluppi spirituali: nella letteratura europea i primi timidi segni del matto-savio compaiono fra i chierici-poeti erranti del Medioevo, fra i trovatori e i lirici della Francia meridionale, dove a quel tempo era tutto un fiorire di eresie.»

«La Via del Matto risale quindi all’XI secolo?»

«Sì, può darsi, non sono un esperto della questione; ma a me pare che il Monaco d’Orlac sia stato il primo, agli inizi del XII secolo, ad affrontare con vera convinzione l’idea del matto-savio. I suoi versi hanno il sapore della follia, che può facilmente essere scambiata per pazzia da quanti non sanno, da quanti non conoscono la visione esoterica.

«Questo significa due cose: o le composizioni del Monaco d’Orlac erano ispirate a una religiosità troppo profonda per la gente comune, oppure erano scritte nella Lingua Verde, ossia nel linguaggio in codice degli esoteristi e degli alchimisti. In una sua poesia, dedicata a un amico poeta, il Monaco scrive: “In tutta la sua vita ha cantato soltanto poche folli parole da nessuno intese”. Quel poeta era Arnaut Daniel, il quale cantò splendidamente di aver cacciato la lepre con il bue, e nuotato contro corrente...

«Tutto questo, naturalmente, se preso alla lettera, non ha molto senso. Il fatto è però che il Monaco d’Orlac e Arnaut Daniel erano fratelli sulla Via: il primo sapeva benissimo che cosa volesse dire Arnaut quando affermava di saper nuotare contro corrente e cacciare con il bue.

«Quello che affascina è che nella sua opera il Monaco, come tanti altri poeti del tempo, insiste a dire che nessuno può capire davvero quello che lui e i suoi “confratelli” scrivono.

«Sappiamo benissimo che i poeti spesso si lamentano di essere incompresi, ma nel caso del Monaco d’Orlac e dei suoi compagni la questione è diversa. A un poeta qualsiasi, che si rammarichi di non essere capito, si può rispondere semplicemente: “Scrivi in modo più chiaro!”. Ma una risposta del genere sarebbe ingiusta nei confronti di questi poeti provenzali, perché essi si sforzavano di comporre versi da una prospettiva completamente nuova. Nessuno li capiva perché essi avevano sviluppato organi spirituali con cui vedevano molto più in là del campo visivo dei loro contemporanei.»

Si schiarì la voce. «Uno di loro scrisse, cito a memoria: “E quando, nella città terrena, che è piena di pazzi, Dio risparmiò un uomo, fu considerato pazzo. Lo maltrattarono perché la sua saggezza non era la loro, perché per loro lo spirito di Dio è follia...”

«Sono parole che possono sembrare prive di senso, e invece per l’ermetista esperto sono il segno che chi le pronuncia è già sulla strada che conduce allo sviluppo di un ego forte, ha già compiuto i primi incerti passi verso la Via del Matto.

«La tradizione del matto-savio – o del matto iniziato – è una corrente che attraversa tutta la letteratura medievale francese e culmina nel più grande “buffone” di tutti i tempi, in quel giullare del XVI secolo che fu François Rabelais. Con la sua straordinaria arguzia e comicità, Rabelais apparteneva di fatto alla tradizione trovadorica e sapeva che pochi dei suoi lettori l’avrebbero seguito nelle sue piroette intorno ai livelli più profondi di significato. Rabelais non nascose che il vero argomento dei suoi libri era l’iniziazione, ma ne celò i misteri e gli insegnamenti avvolgendoli nello splendore della Lingua Verde: dietro la sua giocosità ciarliera egli mantenne il silenzio. Il genio dell’autore francese è tale che vale la pena leggere la sua opera comunque, anche quando non se ne colgono i livelli più profondi. Il suo è un vero matteggiare poetico. Non è un caso che sul frontespizio della prima edizione del suo giullaresco racconto iniziatico, pubblicato nel 1532, Rabelais abbia posto una xilografia del Matto.

«Guardando questa interessante immagine è inevitabile pensare a una versione più sofisticata dello stesso tema, alle diverse versioni del Matto dipinte da Hieronymus Bosch. Il Matto di Bosch indossa, com’era prevedibile, vesti cristiane: la sua figura compare per esempio nel contesto del Figliuol prodigo, ma chiunque abbia familiarità con lo spirito di inizio XVI secolo riconosce in essa la raffigurazione di un essere umano in travaglio, che cerca di rispondere alla nuova sfida dell’evoluzione dell’ego. Non per niente questo dipinto in passato è stato chiamato «Il Matto», e la follia è un tema che Bosch sviluppa in molte altre tele. Le ragioni di tutto questo si chiariranno a mano a mano che procederemo: qui volevo soltanto dimostrare che le immagini della poesia, fatte di parole, furono infine fissate in figure e simboli dalla pittura.

«La follia-saggezza di cui tanto si dilettavano Rabelais e Bosch era in realtà cominciata come la vera arte dei trovatori.»

Desideravo tornare un attimo indietro, e perciò chiesi a Mark: «C’è una ragione, parlo in termini cosmologici, per cui il poeta è dotato di una particolare sensibilità?».

«Sì. Il poeta usa le parole. La mia potrebbe sembrare un’ovvietà, ma la verità è che nelle parole ci sono i misteri. Non è affatto un caso se al più grande mistero di tutti, il Logos, viene attribuito anche il senso di “Parola-Verbo”. Quando il poeta usa parole e forme nuove nessuno lo comprende, e questo i trovatori lo sapevano. Prima che una società sia in grado di recepire un’idea nuova, bisogna che si crei un nuovo lessico, le parole vecchie possono parlare soltanto di cose vecchie: sono come binari arrugginiti che corrono sempre nella stessa direzione. Le cose nuove, le direzioni nuove, richiedono parole nuove. Per un poeta vero è molto difficile parlare ai suoi contemporanei, perché il linguaggio che egli usa e forgia verrà compreso interamente soltanto dalle generazioni future...»

Mark Hedsel, L'iniziato

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